Un paese felice di Carmine Abate

un paese felice

Le pietre con cui sono state costruite le case di Eranova, in Calabria, parlano la lingua della leggenda e sono impastate di un magma ribollente capace di travolgere il mondo per come ci viene consegnato.

Negli anni Settanta Eranova è ancora un paese giovane, fondato nel 1896, quando alcuni massari e contadini si ribellarono al marchese proprietario delle terre in cui vivevano per rivendicare la propria libertà, dare sostanza a un’utopia, edificarla in pietra e carne.

Lo sa bene Lina, una studentessa idealista e caparbia come i fondatori del suo paese. Quando Lorenzo la incontra all’università di Bari, ignora il motivo dell’inquietudine che si annida nei suoi occhi verdi, non sa che Eranova rischia di sparire per far posto al quinto centro siderurgico italiano.

Lina non si dà pace, e cerca di convincere la gente a lottare contro questa colossale follia, utile solo per riempire le tasche voraci della ‘ndrangheta. Aiutata da Lorenzo, scrive appelli al presidente della Repubblica, al papa, al presidente del Consiglio, a politici e persino a Pasolini, conosciuto in una libreria di Bari, perché blocchino il progetto, prima che sia troppo tardi.

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Genere: Narrativa Contemporanea

ISBN: 9788804761204

264 pagine

Prezzo: € 18,50

Cartaceo

In vendita dal 3 ottobre 2023

Immagina che una mattina ti svegli e il tuo paese non c’è piu.

Chi sono io? Cosa ne sarà della mia vita? Le mie radici sono state sradicate?

La perdita dell’identità a favore dello sviluppo, gente costretta a lasciare le proprie case, costruzioni portate su con fiumi di lacrime e sudore.

Un paese felice poco conosciuto, Eranova, che riscopre una nuova luce, una nuova attenzione grazie a Carmine Abate che scrive un romanzo con una notevole carica emotiva e attraverso la storia d’amore tra Lina e Lorenzo, l’Io narrante, va a dare voce al ricordo ancora vivido di chi ha vissuto in prima persona quel forzato trasloco.

Un romanzo che trova diversi riscontri e diverse collocazioni tra forma di denuncia, manifesto sulle lotte sociali e romanzo storico anche se il vero interesse dello scrittore è quello di raccontare la storia e la sorte di un piccolo paese, in realtà una frazione, ma che si sente in tutto e per tutto un paese autonomo.

I richiami a Macondo, paese che nasce dalla fantasia di Marquèz in Cent’anni di Solitudine, metafora della rinascita di Eranova che distrutta, cancellata dalla faccia della terra, verrà poi ricostruita in due luoghi differenti. Nuove case che non profumano di casa perché manchevoli del sacrificio, manchevoli delle radici estirpate e perdute per sempre.

Parte tutto dalla decisione, dopo le rivolte di Reggio Calabria, di realizzare attraverso l’approvazione del Pacchetto Colombo il quinto centro siderurgico con relative promesse di tanti posti di lavoro che fungono da paravento alla realtà delle cose, un progetto destinato a fallire già in partenza ma che permetterebbe a mafia e alcuni esponenti della politica di gestire somme ingenti di denaro.

Una beffa tra le beffe quando questo non verrà mai realizzato ma si deciderà di indirizzare i lavori verso la costruzione di un porto.

E a nulla valgono le lotte di Lina e della sua famiglia per fermare e cambiare la sorte di Eranova costruita dal niente ma resa fiorente dalla voglia di libertà dei suoi primi abitanti:

Per questo siamo venuti qui: perché non volevamo avere padroni sopra di noi. E non ci spagnàva il deserto che abbiamo trovato e neppure che dovevamo incignàre una nuova vita daccapo. Avevamo trovato un posto per noi e per i nostri figli e i figli dei figli. E pure per i parenti mericani che volevano tornare in un mondo senza padroni.

<<Qui comincia un’era nuova di libertà per tutti noi>> disse Fernando Rombolà, il più battagliero, tant’è che lo chiamavano “u Baraunda”: a trent’anni teneva la forza di un giovanotto e la saggezza di un vecchio. Poi sorrise al futuro: <<Qui nascerà il nostro paese. Lo chiameremo Eranova.>>

Un nome che richiama un’utopia e quindi, non trovando riscontro nella società, facile da abbattere con le ruspe a favore del gioco di potere chiamato progresso.

C’è bellezza e tristezza nella storia di questo paese felice, genuinità e semplicità in cui chi vive al Sud, chi vive nei piccoli paesi, si riconosce, ma soprattutto la caparbietà di non voler fare morire il legame con la propria terra.

“Lasciate in vita almeno l’albero anticàrio”: questo sarebbe l’ultimo desiderio di mastro Cenzo, se glielo facessero esprimere. Ma le ruspe e le motoseghe continuano ad avanzare verso di lui per l’intera giornata, con l’ordine tassativo di far sparire tutte le piante entra la sera.

Alla fine lo accontentano per non rischiare di schiacciarlo o farlo a pezzi assieme all’albero. Non hanno voglia di essere arrestati per colpa di un vecchio paccio, che sta creando problemi più degli altri contadini messi insieme. Questo si dicono sprezzanti il forestiero e i suoi uomini. Tanto quell’albero, secondo loro, sparirà comunque sotto una banchina di cemento del porto o risucchiato da una draga e scaraventato in mare.

Note sull’autore

Carmine Abate è nato a Carfizzi, un paese arbëresh della Calabria. Emigrato da giovane ad Amburgo, oggi vive in Trentino. Come narratore, ha esordito in Germania con Den Koffer und weg! (1984) e in Italia con Il ballo tondo (1991), cui sono seguiti raccolte di racconti e romanzi di successo. I suoi libri, vincitori di prestigiosi premi, sono tradotti in numerosi Paesi. Con La collina del vento (2012) ha vinto il 50° Premio Campiello.