
È un giorno di luglio quando Lubna, una giovane giornalista di Karthoum, viene arrestata dalla polizia in un ristorante.
Il suo crimine è aver osato portare i pantaloni, un atto che in Sudan, terra della sharia, è considerato oltraggio alla “moralità pubblica” e come tale va punito con quaranta frustate.
Lubna e altre quindici donne, colpevoli dello stesso reato, vengono caricate su una camionetta, picchiate, portate in prigione. Un castigo inflitto ogni anno a migliaia di donne, che subiscono in silenzio. Per vergogna. Ma Lubna non ha nessuna intenzione di tacere. “Possono anche darmi quarantamila frustate, ma io non starò zitta”.
La mia è una storia personale.
Non sono stata arrestata, processata e condannata perché sono una giornalista, né perché in Sudan la mia penna mi abbia procurato un po’ di notorietà.
Nulla di tutto questo: la mia è la storia di uno scandalo.
La mia storia non è la mia storia.
È la storia delle quindici donne che sono state arrestate insieme a me, in quel ristorante di Khartoum.
La mia storia è quella delle centinaia, migliaia di donne che vengono frustate ogni giorno dopo un processo sommario nei nostri sinistri tribunali.
Donne che vengono frustate soltanto a causa dei loro vestiti.
Riesci a immaginare, solo per un istante, che fine farà un paese in cui la giustizia non esiste? Saranno possibili tutti gli abusi. Per me, per te, per tutti noi, si prepara uno scenario da incubo, stiamo per ritornare al Medioevo.
È il settembre 1983 quando il presidente sudanese Gaafar Nimeiry introduce la sharia, la legge islamica applicata secondo la sua personale interpretazione.
Da quel momento migliaia di donne ogni anno, 43.000 soltanto nel 2008 e nella prefettura di Khartoum, vengono arrestate per aver violato l’articolo 152 del codice penale. La violazione consiste nell’aver indossato abiti che urtano la sensibilità pubblica. Ovvero, dei pantaloni.
La politica controlla non soltanto il vestiario delle donne, ma anche il loro comportamento. Donne condannate senza alcuna possibilità di difesa.
Non hanno alcun diritto, se non quello di tacere.
A questo va aggiunto anche il peso delle tradizioni che schiaccia le donne. Quando queste vengono condannate per aver offeso la moralità pubblica, in poche si ritrovano accanto qualcuno che le sostenga. La maggior parte delle volte vengono allontanate dalla loro stessa famiglia d’origine e/o ripudiare dal marito in quanto la loro reputazione è stata macchiata con la vergogna.
In Quaranta frustate, Lubna racconta la sua personale esperienza condivisa con tantissime altre donne ma sceglie di non rimanere in silenzio, di far sentire la propria voce facendo luce e accendendo l’attenzione sulla condizione della donna in Sudan.
Il cambiamento non avverrà dall’oggi al domani, il cammino è lungo, ma lo abbiamo intrapreso. Un passo dopo l’altro, usciremo dall’estremismo, dall’integralismo, raggiungeremo l’obiettivo che non consiste nel diritto di portare i pantaloni, ma nel diritto alla libertà, a cominciare dalla libertà dell’abbigliamento. L’obiettivo è la fine dell’oppressione delle donne.
La voce di Lubna è una voce in grado di mobilitare il mondo intero.
Note sull’autrice
Lubna Ahmed al-Hussein è una musulmana sudanese, operatrice dei media e attivista che ha attirato l’attenzione internazionale nel luglio 2009, quando è stata processata per aver indossato pantaloni. Il suo caso è diventato una causa celebre, con organizzazioni come Arabic Network for Human Rights Information and Amnesty International che hanno rilasciato dichiarazioni a sostegno.