Perché Maria sia finita a vivere in casa di Bonaria Urrai, è un mistero che a Soreni si fa fatica a comprendere. La vecchia e la bambina camminano per le strade del paese seguite da uno strascico di commenti malevoli, eppure è così semplice: Tzia Bonaria ha preso Maria con sé, la farà crescere e ne farà la sua erede, chiedendole in cambio la presenza e la cura per quando sarà lei ad averne bisogno. Quarta figlia femmina di madre vedova, Maria è abituata a pensarsi, lei per prima, come “l’ultima”.
Per questo non finiscono di sorprenderla il rispetto e le attenzioni della vecchia sarta del paese, che le ha offerto una casa e un futuro, ma soprattutto la lascia vivere e non sembra desiderare niente al posto suo. “Tutt’a un tratto era come se fosse stato sempre così, anima e fill’e anima, un modo meno colpevole di essere madre e figlia”.
Eppure c’è qualcosa in questa vecchia vestita di nero e nei suoi silenzi lunghi, c’è un’aura misteriosa che l’accompagna, insieme a quell’ombra di spavento che accende negli occhi di chi la incontra.
<<Acabar>>, in spagnolo, significa finire. E in sardo <<accabadora>> è colei che finisce. Agli occhi della comunità il suo non è il gesto di un’assassina, ma quello amorevole e pietoso di chi aiuta il destino a compiersi. Perché è lei l’ultima madre.
L’accabadora è una figura realmente esistita, considerata e venerata al pari di una sacerdotessa che poneva fine al dolore dei malati terminali. Prima di chiedere il suo intervento, il malato veniva sottoposto a dei rituali per condurlo alla morte. Se questi non funzionavano allora i parenti si rivolgevano all’accabadora, figura accolta con benevolenza da tutti, per una sorta di eutanasia che consisteva in un gran colpo secco all’altezza dell’osso parietale inferto con il suo grosso bastone, oppure tramite soffocamento a mani nude o adoperando un cuscino. Nessuno doveva assistere al rito.
L’accabadora di Michela Murgia ha il nome di Tzia Bonaria Urrai, donna ormai avanti con l’età che intravede nella giovane Maria Listru la sua possibile erede.
Nella Sardegna degli anni cinquanta, terra di antiche usanze, credenze e maldicenze, Tzia Bonaria svela il suo “lavoro” piano piano e Maria, la sua fill’e anima, percepisce nella figura della Urrai un alone di mistero. Maria è figlia di un altro grembo, orfana di padre e abituata a convivere con le assenze e considera la Urrai la sua vera famiglia. Crescendo scopre una verità così brutale in grado di annullare affetti e rompere la logica dei gesti.
Michela Murgia con un linguaggio semplice ma non semplicistico affronta argomenti complessi come l’eutanasia, i rapporti tra famiglie, le ingiustizie e il gioco di equilibri per mantenere un ordine prestabilito in una società che si basa su tradizioni tramandate, uomini che aspirano al rispetto degli altri e promesse da mantenere.
Note sull’autrice
Michela Murgia è una scrittrice, blogger, drammaturga, critica letteraria e opinionista televisiva italiana, autrice del romanzo Accabadora vincitore dei premi Campiello, Dessì e SuperMondello. È attivista soprattutto nell’ambito della parità di genere e dell’antifascismo, con collaborazioni giornalistiche e partecipazioni a dibattiti politici e televisivi (fonte wikipedia).